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A lezione da Rumiz

inserito il July 13, 2017

Paolo Rumiz, il nostro Presidente, intervenendo questa sera alla Milanesiana, insieme alla scrittrice giapponese Banana Yoshimoto e al premio Pulitzer ’16, il vietnamita Viet Thanh Nguyen, ha letto un magnifico testo sulla paura, che ci suggerisce molteplici riflessioni. Dove finisce il giornalismo ed inizia la letteratura? Ci si può ancora rappresentare con autenticità? Siamo certi che gli stereotipi non ci condizionino? Rumiz, come al solito, ce lo spiega in punta di stile. Grazie Paolo

La sindrome di Jalalabad

Vi farò un elogio della paura. La paura vera. Quella basica, antica, che taglia le ginocchia nell'imminenza di qualcosa di oscuro. La paura del soldato in trincea prima dell'assalto. O dell'alpinista che si appresta a scalare una parete buia, segnata da ghiaccio e bombardata di pietre. O del marinaio, all'ingresso tempestoso di Capo Horn.

La paura non ha una buona stampa. E' assimilata a vigliaccheria. Invece è una delle cose più preziose che abbiamo. Lo affermo per averlo vissuto nella mia storia personale, in esperienze dure, che mi hanno cambiato dentro. Come questa. La più dolorosa, che a distanza di anni ancora mi pesa.

16 novembre 2001, in Afghanistan, due mesi dopo l'attacco alle Torri gemelle. La giovane collega Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera bussa alla mia stanza, nell'unico albergo di Jalalabad. Ha sul capo una jihab indossata vezzosamente come una bandana e, a fianco, il giornalista spagnolo Julio Fuentes di "El Mundo". Ha saputo che l'indomani tenterò di raggiungere Kabul in auto assieme ad altri due italiani. C'è la guerra contro i Talebani, e Osama Bin Laden è asserragliato sulle montagne. Contro di lui, bande di mujaheddin e le bombe degli americani.

Maria Grazia è incerta se partire o meno, fiuta il pericolo di quel percorso. Ci chiede di fare da battistrada, di verificare se ci sono pericoli, e di chiamarla al telefono una volta raggiunta Kabul. Anche Fuentes non si fida. Ha conosciuto troppe guerre e non vede l'ora di tornare alla vita normale, in famiglia. Rievoca le volte in cui ha rischiato la pelle e dice una cosa che non dimenticherò: "Yo soy canzado de esta mierda". Sono stanco di questa merda, cioè della guerra e del mestiere di inviato.

L'indomani nella nostra traversata tutto fila liscio. L'autista è in continuo stato di allerta, ma io no, sono sedotto dal paesaggio. Nonostante l'esperienza accumulata in Bosnia, esco allo scoperto nelle soste e respiro a pieni polmoni l'aria fine che scende dai monti innevati dell'Hindukush. Eppure, lì nelle gole del fiume Kabul, tutto parla di agguati. Sono impressi nel luogo come una decalcomania. Rugginosi monumenti di tank sovietici distrutti. Macchine bruciate. La memoria dell'esercito coloniale inglese che nell'inverno del 1842 viene sterminato due anni dopo essere entrato trionfalmente a Kandahar. Rivedo il dott. Brydon, unico superstite, che arriva stremato nella neve a Jalalabad. E' una strada maledetta. Ma al momento quegli avvertimenti appaiono cosa lontana, letteratura.

La sera, a Kabul, chiamiamo Maria Grazia per dirle che tutto è in ordine. Due giorni dopo, il 19 novembre Maria Grazia, Julio e i loro interpreti sono uccisi da una banda sulla nostra stessa strada. L'eco della notizia è enorme. Siamo increduli, è una lezione tremenda. Ci sentiamo corresponsabili. Mi rendo conto che nella scenografia e solitudine delle montagne afghane mille occhi hanno seguito il nostro spostamento. Prendo atto che la mia, la nostra, assenza di paura non è stata coraggio ma perfetta incoscienza. Dico a me stesso: d'ora in avanti ricordati di avere paura di coloro che non hanno paura. Da allora chiamerò quella constatazione "Sindrome di Jalalabad".

Quella notte, alla luce di quell'agguato mortale, rileggo il film della guerra jugoslava, vissuta in prima persona, dove spesso le vittime innocenti respingevano fino all'ultimo, fin oltre il limite del buon senso, l'idea della strage, semplicemente perché inconcepibile e dovevano ricredersi solo quando era troppo tardi, davanti al coltello degli assassini.

Avevo chiamato quella cecità, in un libro, "Il bene imbecille". Nel senso latino del termine, privo di baculus, bastone, quindi incapace di reggersi in piedi. L'assenza di preveggenza dei buoni aveva spianato la strada ai malvagi. Qualcosa di simile era stato denunciato già nel 1933 da Karl Kraus, nel suo memorabile "La terza notte di Valpurga": la cecità di tanti ebrei, illusi di poter venire a patti col nazismo.

Benedetta paura dunque, sia lodata quella cosa che in guerra i generali fraintendono come codardia. Nel romanzo "Moby Dyck" il nostromo Stubb è un uomo indubbiamente coraggioso, ma quando il Pequod è colpito dal tifone e avvolto dalle sinistre fiamme dei fuochi fatui, rivendica il suo diritto alla paura.

Egli canta per vincere l'ansia, e allora Starbuck, il primo ufficiale, gli dice: smettila, se tu fossi "a brave man", lasceresti che fosse solo il tifone a cantare sul sartiame della nave. Ma Stubb risponde: "I am not a brave man; never said I was a brave man; I am a coward, and I sing to keep up my spirits".

La strepitosa vittoria che Enrico V ottiene ad Azincourt contro un esercito francese tre volte più forte, è ottenuta nel famoso giorno di San Crispino con la forza della disperazione, dopo una notte di sconforto, nella quale il re inglese, come Cristo nel Getsemani, è schiantato dalla percezione della pochezza della sua armata esausta.

Westmoreland, il cugino del re, all'apparire dei francesi, freschi, altezzosi, scintillanti di armi, è preso dalla rabbia. "Ah se avessimo solo diecimila di quei nobili inglesi che ora se ne stanno comodamente a letto a casa loro". Il re lo sente e gli dà una risposta memorabile, che galvanizza l'esercito: "No, my fair cousin: If we are marked to die, we are enough to do our country loss; and if to live, the fewer men, the greater share of honour".

Il titolo di questa mia divagazione potrebbe essere anche "Il coraggio del coniglio". Nel senso che ritengo che la paura animale dell'inerme sia la grande madre non della codardia, ma del coraggio. Il coraggio vero scaturisce dalla percezione sensoriale completa dei pericoli. E' il coraggio della madre che difende i suoi cuccioli, e trasforma un animale anche piccolo in una tigre.

La natura si regge sulla paura. In natura, scrive Saul Bellow, non vi è nulla di più abbondante a disposizione. Provate a dormire una notte in un bosco. Mille fruscii, mille voci guardinghe di animali ve lo confermeranno. Mille orecchie sentiranno la vostra presenza ben prima che voi avvertiate quella altrui. L'evoluzione delle specie nasce dalla paura. Darwin ci dice che sopravvivono i più guardinghi, non i più forti, quelli più seduti sulla loro egemonia. Se l'uomo ce l'ha fatta, col suo corpo nudo, unico tra i mammiferi, è perché ha plasmato l'intelligenza sulla paura.

Ma c'è dell'altro. E' dalla paura e non da altro che discende nell'uomo da millenni il senso del limite e del sacro. La religione tranquillizza con le regole, il sacro spaventa, inquieta. Per questo i prelati detestano il sacro. Ma è sulla paura delle forze oscure governate da entità come Giove, Persefone o Nettuno che s'è fondato per millenni il nostro rapporto corretto con la natura.

Nelle notti solitarie che ho passato, per settimane, in un faro aggrappato a uno scoglio del Mediterraneo, lì in balia dei venti e della marea, in assenza di web e contatti telefonici col resto del mondo, ho percepito tutta la mia nullità rispetto al ruggito degli elementi, e mi sono detto che quel mio timor panico era forse superstizione, ma quella superstizione era più efficace di mille pensieri scientifici nel comunicarmi il mio ruolo nella natura. Mai paura fu più sana e benefica.

In pochi posti come lì, fuori dal mondo, mi sono reso anche conto che la modernità tecnologica sta estirpando questa sana paura che ci abita. Viviamo in un mondo artificiale, protetto e adulterato, che ci protegge dalle paure vere, somministrandoci in abbondanza, a seconda dei casi, consumo, oblio, anestetici, o cosmetici. Tutto purché noi non si veda i pericoli autentici che ci circondano. Così, ci è stata espiantata la memoria di cose come la guerra, la miseria, l'emigrazione, le epidemie; e il Male viene espulso persino dalle fiabe per bambini, nel timore di turbare la loro psiche. La paura è così assente dal cosiddetto mondo civile che poi ci tocca riprodurla artificialmente, con i thriller, o con orrendi giochi iniziatici come "Blue Whale".

Prendete qualsiasi giornale e date un'occhiata alle prime pagine. La parola "paura" si spreca. Compare in diverse varianti in più titoli. La paura vende - così pare - e così uno crede che sia onnipresente, che sia il sentire dominante della nostra epoca. Io ritengo invece che mai nei millenni gli uomini siano stati così privi di paure autentiche.

La parola "paura" oggi ha un senso diverso perché le nostre paure autentiche sono state cloroformizzate, depistate su falsi obiettivi (per esempio, gli immigrati) o trasferite sull'ansia di possedere oggetti di consumo. Nei nostri incubi non sogniamo mostri, ma di perdere il telefonino. L'abuso di web ci ha reso inermi e imbelli. La rete ci spoglia velocemente di molti istinti base: la capacità di dialogo, l'oralità, la memoria, il linguaggio del corpo, il senso dell'orientamento. Senza un Gps siamo perduti.

Anni fa, in una valle in capo al mondo dell'Alto Adige, in pieno inverno, trovai una giovane coppia in automobile che il navigatore aveva spinto in mezzo alla neve fresca, sul tracciato di una pista di fondo. Erano a trecento metri dall'albergo - la loro destinazione - ma non lo sapevano, perché la copertura internet era finita, e stavano morendo congelati dentro la loro macchina, incapaci com'erano di affrontare il buio. Impauriti dal nulla.

Ma torniamo a Maria Grazia e al fatto che niente dovrebbe farci più paura di questa espulsione della paura dalla società dei ricchi. E' proprio questa assenza, inedita nella storia, che rafforza ogni giorno di più la mia vecchia sindrome di Jalalabad. Un sentimento inedito, assolutamente inatteso, che mi accompagna sempre, con fastidiosa costanza, anche quando dormo, e va oltre il mio destino personale. Paura dell'assenza di paura di fronte ai cataclismi globali.

Del resto, perché averla? Viviamo cose contro le quali il coraggio individuale può nulla, disastri così immensi che ci assolvono dalla necessità di combattere per scongiurarli. Tempeste planetarie, senza rimedio. Che fare contro ciò che è più grande di te? Niente. Un abitante dei Campi Flegrei, che vive su una caldiera vulcanica che comunica direttamente con l'inferno, non può morire di paura ogni giorno. Egli si aggrappa a paure quotidiane e più controllabili. Non riuscire a pagare l'affitto. I fastidi del piccolo delinquente di quartiere. Il figlio che ritarda il sabato sera.

Gli ultimi cent'anni hanno portato tutto questo senso di impotenza alla all'esasperazione. Abbiamo assistito a una mutazione irreversibile nel nostro mondo: la fine della politica, che non controlla più niente; la fine del discorso, sostituito da slogan e brandelli di frasi; la fine dell'individuo, che non può nemmeno indignarsi perché non sa dove si nasconda il burattinaio della sua disgrazia, ignora dove si annidi il Mangiafuoco sconosciuto che sposta capitali e accende o spegne sul Pianeta focolai a macchia di leopardo. La battaglia di Azincourt non è più riproducibile. Il coraggio individuale è stato sostituito da un display e da un pulsante.

Siamo pieni di paure senza rimedio e senza agenti individuabili del Male. Le conosciamo tutte. Il saccheggio delle risorse e l'arroventarsi dell'atmosfera. La distruzione del senso del limite. L'illusione di certa politica che i territori siano superfici levigate, senza storia e senza cicatrici. La retorica no-border che ha come risultato il rinascimento dei muri. I consensi politici costruiti sulla paura dei poveri da parte di chi finge di non vedere il furto globale di una finanza senza patria ai danni dei territori. Gli algoritmi seminatori di discordia. La fine dei luoghi del mercato per l'esplosione delle consegne a domicilio. Il mondo virtuale che ci anestetizza e ci deruba della realtà. La dipendenza dal web che ci ha tolto l'arte dell'incontro.

Ho paura di tutto questo, certo. Ma ho ancora più paura che questi malanni planetari non siano percepiti con la paura che meritano. Esempio: avete mai visto da vicino il ghigno sardonico di uno che muore di tetano? Io sì, da bambino. Ce l'ho stampato in mente. Per questo ho paura di chi ha dimenticato quella paura. Paura di chi ha perso la memoria delle epidemie che per secoli hanno sterminato l'umanità e oggi protesta e fa fiaccolate contro i vaccini. Vedo in quei fuochi le stesse fiamme oscurantiste che a Roma hanno arso vivo Giordano Bruno.

Viviamo dunque in un mondo che da una parte ci dispensa paure planetarie, talmente grandi che rendono il coraggio ininfluente e superfluo, e dall'altra - per coprire il saccheggio - ci inonda di paure talmente infime e miserabili da rendere il nostro coraggio ridicolo. In entrambi i casi sono paure sterili, che non sollecitano il nostro istinto di sopravvivenza, ma al contrario danno la misura della nostra decadenza.

Che spazio esiste al coraggio in una simile società? Temo nessuno. Siamo di fronte al paradosso che oggi la paura autentica, e di conseguenza il coraggio, rischia di sopravvivere solo nel mondo della guerriglia dei fanatici, contro il quale i nostri missili e i nostri droni vigliacchi non possono nulla; o nel mondo del crimine, selezionato dai regolamenti di conti. La mafia è infinitamente più razionale e preveggente dello Stato. Non posso dimenticare come a Sarajevo nel 1992 non furono gli intellettuali illuminati a capire cosa stava arrivando, ma le gang di periferia.

Oggi il coraggio è emigrato altrove, fuori dal nostro mondo protetto. Tra i poveri. Quelli che, per disperazione, affrontano l'orrore del mare nero in cerca di una vita migliore. Essi ci danno una lezione di paura e di coraggio, che noi non sappiamo far nostra. Ci dicono quali sono i pericoli che ci circondano, ci avvertono che il mondo oggi non è la nostra happy hour, ma la fame, la guerra e la disperazione. Essi ci danno una lezione di coraggio e per questo ritengo che saranno loro a vincere, domani.

Noi titolari di paure superflue saremo sconfitti dai depositari delle paure reali. Nulla può fermare ragazzi che fuggono dalla miseria o dalla guerra, con la testa piena di sogni....

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