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Mrak, oscurita'

inserito il February 4, 2022

Il 33° Trieste Film Festival ha portato con sé una perla, il film di Dušan Milić, Mrak (Oscurità). Il miglior lavoro cinematografico realizzato sul Kosovo e Metohija.

Milić, 53 anni, osserva e si interroga, senza idee preconfezionate.

Ha visto e recensito per noi il film, Alessandro Gori, giornalista e profondo conoscitore dei Balcani.

MRAK (Oscurità), un film di Dušan Milić

di Alessandro Gori

«Ho 11 anni e vivo in Kosovo, ma non nella casa in cui sono nata. Quella era in un altro villaggio ed era fatto di mattoni. Avevamo l’acqua corrente e il bagno. Ha preso fuoco e mamma, papà ed io siamo venuti qui dal nonno. Da Pasqua l’elettricità salta ogni giorno. Non possiamo nemmeno ricaricare il telefono. Di notte quasi non dormiamo. Qui viviamo nella paura. (…) Dopo quello che è successo lo scorso marzo, sono rimasti solo sei bambini in questa scuola. Tutti gli altri se ne sono andati».

Per il suo ultimo film, Mrak (Oscurità), presentato a fine gennaio in anteprima mondiale al Trieste Film Festival, il regista Dušan Milić si è ispirato a una storia vera. Questa è la lettera che una ragazzina scrisse al presidente serbo di allora (Boris Tadić) esprimendo le proprie paure in quelle notti al buio, un’esemplificazione della tragica situazione dei serbi delle enclave in Kosovo. La lettera venne poi pubblicata perché Tadić la lesse al consiglio di sicurezza dell’ONU.

Milica, 12 anni, vive con la madre e il nonno in una casa isolata in mezzo ad un bosco. A difenderli, si fa per dire, solo il filo spinato che circonda l’abitazione e i militari internazionali, i quali però si presentano solamente di giorno e non possono fare altro che constatare i danni degli attacchi notturni. Appena scende il sole, infatti, la luce elettrica viene scientificamente staccata e, mentre la casa è inghiottita nel buio e la famiglia si chiude in casa al lume di candela bloccando la porta dall’interno con dei mobili, la paura degli attacchi degli estremisti si insinua prepotentemente. 

All’inizio sorge il dubbio che ci sia veramente qualcuno nel bosco, che non siano invece gli elementi della natura a creare rumori sinistri e che si tratti solo di suggestioni dovute alle conseguenze dei traumi della guerra. Ma ogni notte accade qualcosa, il vitello sgozzato, le galline sparite, l’acqua del pozzo avvelenata… L’obiettivo è spingere i pochi serbi rimasti ad andar via, per lo meno quelli che vivono nelle enclave più piccole o in case isolate.

Milica si era trasferita con la mamma dal nonno dopo che la sua casa è stata bruciata. Successivamente suo padre e suo zio che erano andati a lavorare i campi non hanno fanno più ritorno. Passano i mesi, ma le risposte delle forze internazionali che dovrebbero investigare sulle loro scomparse non arrivano.

Ci troviamo in Kosovo nel 2004, subito dopo il chiamato “pogrom”, quando per tre giorni nel marzo di quell’anno veterani dell’UÇK (Esercito per la liberazione del Kosovo) insieme a civili albanesi marciarono verso numerose enclave serbe bruciando case, chiese e cimiteri e cercando di spingere la popolazione serba ad andarsene, una pulizia etnica di fronte a cui i militari internazionali rimasero semplicemente a guardare. 

Mrak è un film che lascia il segno e che andrebbe visto in sala completamente al buio e non su un piccolo schermo. Milić riesce mirabilmente a trasmettere quel senso di paura e di accerchiamento che si è vissuto nelle enclave serbe del Kosovo per anni. Durante la proiezione l’angoscia attanaglia lo stomaco sia di chi ha vissuto direttamente la triste realtà di quegli anni e di quelli successivi, ma anche a chi non conosce la situazione specifica. Ma il film tratta anche della paura in senso più universale, del buio, nei confronti di qualcuno che non si vede mai ma di cui si avverte la presenza costante, le notti insonni con i rumori che non ti fanno dormire. 

Il film è il risultato di una coproduzione di diversi Paesi (Serbia, Italia, Danimarca, Bulgaria e Grecia) di cui sono protagonisti la sorprendente undicenne Miona Ilov di Prokuplje, insieme a Danica Ćurčić (la madre), attrice danese di origine serba, e Slavko Štimac, vecchia conoscenza della cinematografia balcanica, nel ruolo di nonno Milutin. 

Il film racconta anche il dilemma di molte famiglie. Ogni mattina un blindato della KFOR passa a prendere Milica e si ferma nelle altre case isolate della zona per prendere i pochi bambini rimasti e portarli in una scuola improvvisata. I rappresentanti dei serbi locali e il pope cercano di convincere le famiglie a rimanere, ma ogni giorno che passa un altro bambino, insieme alla sua famiglia, se n’è andato dal Kosovo e il blindato non si ferma più da loro. Anche Milica e sua madre vorrebbero partire, ma il nonno non ne vuole sapere, vuole cocciutamente fermarsi nonostante tutto e tutti.

Dal febbraio 2008 il Kosovo è indipendente, anche se attualmente è riconosciuto solo da poco meno della metà dei Paesi del mondo (attualmente da 98 dei 193 membri dell’ONU).

A distanza di tanti anni le condizioni dei serbi delle enclave sono sicuramente diverse, ma ancora oggi in alcuni posti si vivono situazioni complicate, il dialogo tra le due comunità non esiste e per i non albanesi continua a non esserci posto nel Kosovo sempre più etnicamente “purificato”. E ancora nel 2022 non mancano le provocazioni, l’ultima proprio di alcuni giorni addietro (clicca qui ).

Mrak propone anche alcune domande scomode. 

Perché esistono (ancora) le enclave?

Perché qualcuno dovrebbe rimanere a vivere in tali terribili condizioni, dentro a veri e proprio ghetti, o comunque in un posto in cui non hanno nessun futuro?

Come si evince dal film, alcuni non vogliono andarsene perché quello è il loro posto, le loro famiglie sono lì da generazioni e vogliono rimanerci. Altri più prosaicamente non hanno altri posti in cui andare, o nessuno che potrebbe ospitarli, ma lo stillicidio dei bambini che se ne vanno è continuo.

Mrak critica anche il ruolo dei militari internazionali in Kosovo e l’effettiva efficacia della loro presenza. Nel 1999 i mezzi di comunicazione avevano legittimato l’intervento militare della NATO per fermare la pulizia etnica dei serbi contro gli albanesi, ma successivamente questo fenomeno è stato permesso e tollerato a parti invertite nonostante la massiccia presenza di soldati e civili internazionali. I media stranieri hanno subito perso ogni interesse per la regione ed i vari intellettuali occidentali che prima appoggiavano incondizionatamente la causa albanese-kosovara sono rimasti in silenzio. Nell’indifferenza generale, poche migliaia di serbi sono rimaste per anni rinchiusi entro queste aree circondati dal filo spinato da cui potevano uscire solo grazie ai blindati internazionali della KFOR che in teoria avevano il compito di “proteggerli”.

Anche nel film i famosi “rapporti” stilati dai militari sugli attacchi subiti non portano a niente. Viene sì evidenziata una sostanziale differenza tra i militari di altri Paesi (statunitensi nella fattispecie) e quelli italiani, il cui approccio personale è sicuramente diverso, ma alla fine non servono a proteggere la famiglia. Anzi. Come racconta Milica nella sua lettera: «Le autorità dicono di non preoccuparsi. Ci hanno dato dei fischietti da usare in caso di emergenza… Ma a cosa ci servono i fischietti? Non possono proteggerci dalla paura. Nessuno può farlo».

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